su GOOGLE e h trovato questa intervista del MANIFESTO al BERTINOTTI. Poichè parlava di 25 APRILE e PRIMO MAGGIO e un po' di molto altrome la sono letta e chissà forse interessa ad altri, nel BENE e nel MALE. O più semplicemente, un conto sono i pensieri e le idee e ben altro sonla capacità e le gambe su cui farle camminare. O è problema di CASHEMERRE  (è scritto in tanti modi, CASHMERE o KASMEERE, un tempo alludeva ai maglioncini di Perdinotti, adesso si allude al cappottino di D'Alema a st. Moritz) anche qui?

Crisi della destra, il «nuovo centro» di De Benedetti e Marchionne, il 25 aprile e le riforme, la scomparsa della sinistra e il necessario «big bang» dell’opposizione. È un cerchio assai ampio quello che Fausto Bertinotti disegna in questa intervista al manifesto. Ruota attorno alla necessità per la sinistra di legare due temi tra loro connessi: ricostruire la democrazia oltre le lacerazioni oligarchiche e «cambiare il modo di fare politica per cambiare la politica», cioè superare l’attuale assetto dei partiti. Inevitabile, però, partire dallo scontro nel Pdl, dalla bufera su Fini e la presidenza della camera.

«Dire che la democrazia costituzionale antifascista è in crisi è un eufemismo – commenta Bertinotti – non stiamo assistendo a un semplice logoramento del sistema democratico ma a un suo reale rovesciamento. Siamo così abituati al fatto che la costituzione materiale ha divorato la Carta fondamentale che le sgrammaticature sembrano poca cosa».

E invece i presidenti del senato e del consiglio che chiedono le dimissioni del presidente della camera per un conflitto di partito sono un inedito.

Se la Costituzione vigesse ancora sarebbe inammissibile. Chiedono le dimissioni di Fini perché non dovrebbe esprimersi politicamente e perché non può farlo in termini critici verso il presidente del consiglio. Dal punto di vista istituzionale è un’aberrazione. Il presidente della camera è un «facitore di democrazia parlamentare». Il suo intervento politico, con misura, è lecito.

Le polemiche su di lei, la spilletta della pace il 2 giugno o «il poeta morente» riferito a Prodi, fanno un po’ sorridere.

Anche i giornali democratici mi posero degli aut-aut. Il governismo – o come dice Agamben la «governamentalità» – è diffuso in tutta la politica. L’unica dimensione in campo è l’esecutivo. E l’unico sovrano che nessuno può discutere è il governo.

E’ questo secondo lei l’oggetto del contendere nella destra?  

Chi come noi viene dal ’900 misura il conflitto in termini programmatici. Per noi destra-centro-sinistra si distinguono sul piano del programma. Da tempo invece nel campo della politica sono apparsi altri «animali»: valori, disvalori, simboli, gesti, movenze dello spettacolo. Non sono snob, non è una fauna insignificante.
La sinistra è spiazzata anche perché non riesce a capire questo campo della contesa politica. In questa forma nuova lo scontro nella destra è asperrimo. Berlusconi ha vinto nell’immediato perché ha ridotto al minimo l’avversario. Ma Fini ha già vinto perché ha messo un sasso nel berlusconismo costringendolo a modificare il suo rapporto con la politica. 

In base a questa nuova «fauna», perché è accaduto?

Perché sul piano dei valori e dei principi il contrasto nel Pdl riguarda innanzitutto una forma del partito che allude alla forma della democrazia e delle istituzioni. Mi sembrano fermi all’XI congresso del Pci, quando la maggioranza diceva «ma che vorrà questo Ingrao che si sofferma solo sul dissenso e sul dubbio?». Secondo: sul terreno dei principi discutono di immigrazione e giustizia. Fini e i suoi hanno votato tutte le leggi in parlamento ma nell’ispirazione oggi sembrano distinguersi. Se si passa infine al piano simbolico, il video con i gesti di Berlusconi e la ribellione di Fini al «principe» entra nell’immaginario in modo potentissimo. Inutile chiedergli «ma tu su cosa dissenti?» Fini ti risponderebbe: «Su tutto». L’ultimo elemento di rottura è la messa in discussione dell’autorità del capo. A sinistra un po’ meno ma il dissenso è normale in tutti i partiti del mondo. Nel berlusconismo è impossibile. E se c’è è esplosivo.

Il 25 aprile. Un anno fa Berlusconi a Onna era all’apice del consenso e illustrò un programma ambizioso. Un anno dopo sembra franato tutto. Che cosa è cambiato?

Un anno dopo stiamo peggio. L’anno scorso Berlusconi inghiotte il 25 aprile come «festa della libertà» in un nuovo assetto politico e istituzionale. Proponeva un’operazione egemonica. Ma cosa accade dopo? Oltre alle divisioni e agli scandali accade la crisi economica. La vittoria delle destre alle elezioni ci sorprende perché la crisi mette molto in difficoltà il governo e il suo blocco sociale. Solo lo stato comatoso della sinistra gli consente il recupero elettorale. Nel frattempo lo scontro tra costituzione materiale – leggi, decreti, contratti – e Carta fondamentale è andato avanti fino al punto di collassare. Non siamo solo nella crisi della democrazia repubblicana, in quest’anno abbiamo assistito alla costruzione di una democrazia oligarchica.

Oggi il 25 aprile cos’è?

E’ la traduzione dell’antifascismo nella Costituzione. Quando Brunetta e Berlusconi attaccano la Carta «bolscevica» fanno una vera operazione culturale. Ma il 25 aprile proprio perché è diventato la Costituzione non è che lo puoi mangiare come un serpente l’uccellino. Provi a inglobarlo celebrativamente ma il contenuto della Costituzione – l’articolo 1, 3, 11… – ti è indigeribile. Non puoi smantellare l’uguaglianza e mantenere questa Costituzione fondata sul lavoro e la divisione dei poteri. In un anno di crisi il governo del fare non ha fatto nulla. Se non distanziandosi dalla società: vuole mano libera sul lavoro e fa l’accordo separato, vuole leggi scomode e fa i decreti con fiducia, vuole i soldi al Nord e fa l’autonomia fiscale. E’ cioè una plutocrazia in quanto comando dei potentati economici, una cleptocrazia in quanto rottura della legalità e una videocrazia come dominio dei media. In breve: siamo in una democrazia oligarchica, il popolo si esprime ma a decidere sono le oligarchie.

E’ inevitabile però che qualcuno, magari il capo dello stato, ricordi il 25 aprile per chiedere una revisione condivisa della Costituzione. In questo quadro come si può parlare di riforme?

E’ una discussione grottesca che va rovesciata. Servono riforme non per il governo ma per la democrazia. Se prendiamo sul serio il 25 aprile e il 1 maggio dobbiamo ammettere che non siamo al «tradimento» della Costituzione come diceva Calamandrei ma al suo rovesciamento. Il nesso 25 aprile-riforme è contraddittorio. Può essere accettato solo dando un carattere riduttivo o celebrativo alla Liberazione. Non dico che con Berlusconi non si possono fare le riforme. Dico che non si possono fare le riforme perché il tema è la ricostruzione della democrazia, non l’adeguamento delle forme di governo alla controriforma già realizzata. Napolitano ha i suoi doveri istituzionali ma la sinistra ne ha altri. Accettare di discutere la seconda parte della Costituzione lasciando intatta la prima, che è stata demolita, è come minimo ipocrita.

Il precipitare della Seconda Repubblica è la fine del bipolarismo o questa crisi oligarchica rafforzerà Pd e Pdl?

La crisi della destra è tale che può anche partorire una nuova forza politica. Ma indubbiamente è in campo anche un altro progetto più ambizioso. L’idea di uscire da questa crisi politica ed economica facendo evolvere la destra verso il centro.

Immagina un nuovo centro?

Mi ha colpito molto leggere un intervento di Carlo De Benedetti sul Foglio, secondo me una piattaforma programmatica di un nuovo centro. Quello schema è incompatibile con il centrosinistra. Riduzione delle tasse, prolungamento dell’età pensionabile, patto tra produttori senza che i lavoratori possano avere una soggettività politica. Sarò Fiat-centrico ma mi pare in perfetta sintonia con la grande svolta di Marchionne. Anche nel confronto sull’auto emerge un’idea dei rapporti sociali complementare a quella di De Benedetti. Il diritto di veto attribuito da Marchionne ai sindacati è il loro strangolamento. Perché un sindacato può essere autonomo, conflittuale e contrattuale solo in presenza di una continuità dell’azienda. Secondo me l’accoppiata De Benedetti-Marchionne, con questo cambiamento di registro, è l’ingresso in Italia di una borghesia trans-nazionale dopo quella delle grandi famiglie. Un altro capitalismo, mondiale, con una piattaforma che può essere il riferimento programmatico di una soggettività politica post-berlusconiana.

È una parte del «big bang» della politica su cui si interroga da tempo?

Sì e no. Mentre ci sono la contesa nella destra e le prove generali di un nuovo centro, la sinistra proprio non c’è. L’esito del «big bang» dipende dalla rinascita o no della sinistra. Ma per rinascere deve prendere atto di una verità durissima: il suo attuale assetto in partiti è un impedimento a questa rinascita. Daniel Cohn Bendit ha lanciato un appello in cui propone di creare una «cooperativa politica». Dice che i partiti – antichi luoghi di formazione di senso, apprendistato di cittadinanza, organizzazione democratica della società – sono diventati corpi separati incapaci non solo di realizzare il cambiamento ma perfino di accompagnarlo. Ormai le oligarchie dominano non solo la forma statuale ma anche le organizzazioni della vita politica. Se questa rivoluzione culturale non la fa la sinistra chi la fa? Per questo il «big bang» e la rinascita della sinistra viaggiano insieme alla modifica radicale dell’assetto politico del paese. Devono ambire a ricostruire la democrazia.

Le sembra che il Pd o Bersani siano partecipi di questa ambizione?

Io ho perso ed è sgradevole sembrare una mosca cocchiera. Però nel Pd il tema non è neanche sfiorato. C’è una coazione a ripetere: perdi le elezioni e vanno benino, la destra si rompe però è un brutto spettacolo, c’è una legge che cambia il mercato del lavoro e non te ne accorgi… Il Pd galleggia sull’esistente e questo francamente inquieta. Non penso a una responsabilità dei singoli ma che ci sia un elemento mortifero nella struttura dei partiti dell’opposizione. Il «big bang» è una liberazione di energie, una moltiplicazione di vitalità. Di fronte alla conflittualità dei gruppi dirigenti, l’impossibilità di discutere sui grandi temi di fondo, un rapporto precario e strumentale con i movimenti, la sinistra deve rovesciare la sua priorità: cambiare il modo di fare politica per cambiare la politica.

(da www.il manifesto.it – uscito sul manifesto il 25.04.2010)